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Luigi Pellegrin

 

 Luigi Pellegrin nel laboratorio di via dei Lucchesi / Roma, 1997

 

Articolo pubblicato sulla e-zine Exibart.com  in data 17/09/2001 in occasione della scomparsa di Luigi Pellegrin
 
Nato ad Arles, Francia, ma di famiglia friulana. Padre carpentiere, di quelli che giravano per l’Europa con l’arte di “fare il cemento”, madre rigorosa, ma dolce, ”di cultura calvinista”, diceva lui. Ma chi è Luigi Pellegrin architetto? Perché non tutti lo conoscono? Chi ha avuto la sorte di incontrarlo, non poteva che restare impressionato dall’emanazione di personalità che egli infondeva. Come architetto si era formato a Roma, negli anni che seguivano il dopoguerra. Era uno studente “contro”; irriverente per natura, sapeva di essere uno con “cento chili di talento” in un corpo asciutto e nervoso. E sì perché Gigi masticava, respirava architettura. Negli anni cinquanta inizia la sua attività professionale proprio a Roma. I suoi primi maestri sono europei, Van Doesburg, Hans Scharoun. Maestri spirituali si intende. Poi Frank Lloyd Wright. E con Wright inizia una intensa dialettica progettuale che lo porta ad aderire, giovanissimo, alla associazione per l’Architettura Organica, fondata da Bruno Zevi. Ma il rapporto con Wright richiede un avvicinamento al mondo americano. Si reca, quindi, negli Stati Uniti nel 1954, una nazione non toccata dalla grande guerra, dove il mondo professionale è veramente evoluto; lì acquisisce questo ingrediente in più, che lo aiuterà a mettere in atto, ogniqualvolta si presenti l’occasione, ogni sua intenzione progettuale. Torna in Italia negli anni in cui si fa aspro il dibattito tra Razionalismo ed Architettura Organica. Zevi contro tutti, si dice. Pellegrin ovviamente è un “organico”. Ha la bravura e l’opportunità di costruire. Esperimenti spaziali per almeno un decennio. Un decennio germinale. Gli edifici postali di Saronno e Suzzara, oggi monumenti nazionali, sono rappresentativi di quel periodo. Spazi dinamici e intersecati, luce emozionante, rigore costruttivo. L’architettura dei sui edifici si sviluppa nello spazio in maniera mutevole e ordinata da una genetica intrinseca. Il razionalismo non lo interessa nei sui risultati spaziali decomplessi e asettici. Pellegrin va avanti. Arriva il sessantotto. La prassi del pensare borghese viene smantellata dai fermenti giovanili i cui focolai sono nati qualche anno prima negli States. Si diffonde il pensiero “globale”, la coscienza collettiva delle ingiustizie sociali provocate degli stati forti per il mantenimento dei privilegi economici. Pellegrin risponde a questo momento di disordini con una grande intensità creativa. E’ già un affermato professionista, ha realizzato scuole, palazzine, edifici pubblici. Vuole però voltare pagina. Inizia quello che lui stesso ha definito: momento della visione. Nascono progetti ad una scala diversa e approda a nuovi modi di costruire: la prefabbricazione. E’ una maturazione personale che implica il comprendere, nella sua essenza più profonda, l’architettura “energetica” di Fuller, il sollevare da terra gli edifici di Le Corbusier. E’ anche il momento del diffondersi delle arcologie di Paolo Soleri. Esplode con i suoi Disegni di “pre-architettura” e i suoi “organismi” edilizi a grande scala. Si parla di megastrutture, Pellegrin risponde con le sue concezioni di Habitat umani supportati da un’esecutività degli stessi senza precedenti. Pellegrin riesce a possedere tecnicamente tutto ciò che concepisce e questo forse spaventa. Siamo negli anni settanta. E’ professore universitario alla “Sapienza” di Roma. Il suo studio è un importante laboratorio di ricerca e nello stesso tempo gode di una produttività eccezionale. Realizza moltissimi edifici, centinaia. Pensa e disegna una città lineare come soluzione alternativa all’urbanesimo catastrofico che si sta per realizzare. Il “Serpente” è una linea di costruito che libera il territorio, una evoluzione della Rio De Janeiro di Le Cobusier. Poi il concorso per lo Zen di Palermo, vinto dallo “scatolonista” Gregotti e che lui, invece, aveva pensato sospeso nell’aria. Il concorso per il Lingotto di Torino è già dei primi anni ottanta. Arriva secondo anche qui dopo Piano. Ma il progetto non viene compreso, nella sua portata, dalla critica architettonica. Lo stesso Zevi in quegli anni non capiva più Gigi. Nei suoi discorsi il critico gli ripeteva sempre di fare il grande architetto invece di pensare al prefabbricato. Era l’incomprensione che in quegli anni si iniziava a nutrire verso chi non riteneva l’architettura solo come un semplice fatto di immagine. E infatti Pellegrin viene gradualmente messo all’angolo dalla critica. Intanto la sua ricerca continua. Punta sul grande tema della mobilità. Concepisce l’habitat come un tutt’uno con i grandi nodi di scambio con una chiarezza premonitrice, ma è destino che non debba vedere realizzati i suoi moltissimi progetti sul tema della intermodalità. I nodi Ostiense, Tiburtina Termini, per citarne alcuni, sono risposte decise e perché no, stupende, al bisogno di urbanità dei cittadini Romani. Tutto inutile. L’Italia viene travolta da eventi politici destabilizzanti. Siamo a metà degli anni novanta, è’ l’immobilismo più totale. E’ un duro colpo per Pellegrin, il quale come al solito tenta una reazione. Sperimenta l’effimero dei grandi parchi di divertimento. Ma i tempi sono cambiati. E allora l’ultima reazione, il suo testamento indirizzato ad un mondo che si sta fratturando: un anello a trenta metri di altezza che cintura ed unisce il globo supportando ogni genere di funzioni. Pellegrin scompare mentre Manhattan brucia, il mondo brucia. E allora spero che il suo spirito liberato abbia ancora più forza di agire, di rendere i nostri occhi “aperti spalancati”.
 
 

Roma, 17 / 09 / 2001

Francesco Redi

 

 

 

 

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